In questi ultimi anni la popolazione sorda si è ritrovata al centro di una notorietà imprevista che ha determinato una vasta diffusione di informazioni precedentemente riservate solo agli addetti ai lavori. E’ sorto il problema di stabilire una terminologia adeguata per discorrere della questione sordità nell’era del “politicamente corretto”. I termini sordo e sordità sono spesso oggetto di correzione e pertanto la persona sorda è definita minorato dell’udito, non udente, audioleso, ipoacusico, portatore di deficit uditivo ecc, mentre la sordità diventa minorazione uditiva, audiolesione, anacusia, otologopatia ecc... Un altro termine spesso usato per indicare le persone sorde è sordomuto, ma non può essere considerato un sinonimo dei primi. Questa denominazione, infatti, risulta imprecisa e può generare degli equivoci in chi non possiede competenze specifiche. Essa suggerisce un impedimento oltre che dell’udito anche della parola, ma in realtà la persona sorda, con un’adeguata terapia riabilitativa, può imparare a programmare l’emissione della propria voce e quindi a parlare.
Il termine sordomuto è però ancora in uso nel sistema normativo italiano per il quale si considera sordomuto “il minorato sensoriale dell’udito affetto da sordità congenita o acquisita durante l’età evolutiva che gli abbia impedito il normale apprendimento del linguaggio parlato, purché la sordità non sia di natura esclusivamente psicologica o dipendente da causa di guerra, di lavoro o di servizio” ( art. 1 legge 381).
Recentemente il ministero del welfare ha stabilito che il termine sordomuto venga sostituito da sordo preverbale nei documenti pubblici.
L’Ente Nazionale Sordi (ENS) ritenendo che l’aggettivo preverbale descriva una qualità inarrivabile per chi è al margine della società dei verbali, crede che il termine sordo prelinguale rappresenti efficacemente la condizione delle persone sorde in quanto fa preciso riferimento all’apprendimento del linguaggio che è conseguenza del deficit (Legge 95/2006).
Per sfatare tutti questi miti e risolvere la questione una volta per tutte, possiamo affermare con certezza che i sordi, in quanto tali, preferiscono essere chiamati solo sordi.
La sordità è la riduzione più o meno grave dell’udito.
Dal punto di vista clinico si distinguono diversi gradi di sordità diversamente correlati alla possibilità di percepire i suoni linguistici e di sfruttare i residui acustici attraverso l’uso delle protesi. In base ad una convenzione stabilita dal Bureau International d’Audiophonologie si distinguono quattro gradi di sordità in base al grado di perdita uditiva espresso in decibel (db):
- sordità lieve: con una perdita uditiva compresa fra 20 e 40 db;
- sordità media: con una perdita uditiva compresa fra 40 e 70 db;
- sordità grave: con una perdita uditiva compresa fra 70 e 90 db;
- sordità profonda: con una perdita uditiva uguale o superiore a 90 db. Ulteriori distinzioni vengono operate nell'ambito della sordità profonda:
- 1° gruppo – sordità con curva pantonale che abbraccia tutte le frequenze fra i 125 e i 4000 Hertz all’intensità di 90 decibel;
- 2° gruppo - sordità con curva dai 125 ai 2000 Hertz all’intensità uguale o maggiore di 90 decibel;
- 3°gruppo - sordità con curva detta a virgola dai 125 ai 1000 Hertz a intensità maggiore di 90 decibel.
In generale si può affermare che una perdita uditiva oltre i 90 db impedisca, anche con l'ausilio delle protesi, una corretta percezione delle parole (Favia, Maragna, 1995).
Le cause della sordità sono ancora oggi uno degli aspetti meno chiari della diagnosi: questa incertezza è determinata dalla varietà di fattori che possono causare la sordità. Le cause possono comunque essere distinte in due grandi aree: le sordità congenite (insorte prima della nascita – cioè prenatali –, o insorte dopo la nascita – postnatali – in quanto sordità genetiche progressive) e le sordità acquisite (insorte al momento della nascita – cioè perinatali o neonatali – o in seguito alla nascita – cioè postnatali).
Sordità prenatali:
- ereditarie: non si manifestano necessariamente alla nascita, infatti, in alcuni casi, sono di natura progressiva ovvero la perdita uditiva peggiora con il passare del tempo.
- acquisite: malformazioni congenite, malformazioni tossiche (farmaci, tossici endogeni), malformazioni endocrine-dismetaboliche (diabete, ipotiroidismo), malformazioni infettive (sifilide, toxoplasmosi, virali).
Sordità perinatali: traumi ostetrici, ittero, ipossia, prematurità, anossia.
Sordità postnatali: sordità ereditarie e genetiche progressive, traumi cranici, malattie infettive (otite media, meningite, encefalite, parotite, morbillo, toxoplasmosi), intossicazioni da farmaci, malattie dell’orecchio medio (perforazione della membrana timpanica, otosclerosi).
La percentuale di bambini che nascono sordi o lo diventano prima di imparare il linguaggio è 1/1000 e la sordità ereditaria sembra rappresentare circa il 50% dei casi, anche se all’interno di questa vanno distinti due gruppi: le sordità non sindromiche recessive, cioè non associate ad altre patologie (70% dei casi) e le sordità sindromiche legate a specifiche patologie di cui la perdita dell’udito è solo uno dei sintomi (30% dei casi).
In base al momento dell’insorgenza della sordità e della possibilità quindi di acquisire spontaneamente una lingua vocale, si procede con un’ulteriore classificazione:
Sordità prelinguali: presenti alla nascita o insorte precocemente, cioè prima dei 18 mesi (ovvero prima dell’acquisizione spontanea della lingua parlata).
Sordità perlinguali: acquisite fra i 18 e i 36 mesi d’età.
Sordità postlinguali: acquisite dopo i 36 mesi (ovvero dopo aver acquisito spontaneamente la lingua parlata).
Oltre al grado, alle cause e all’età in cui insorge la sordità, vi sono altri fattori che la rendono un fenomeno molto eterogeneo. Uno di questi è l’età della prima diagnosi: in Italia, fino a pochi anni fa, l’età media della prima diagnosi variava dai 19 ai 36 mesi (Maragna 2000). Oggi, grazie allo screening neonatale inserito dal 2017 nei LEA (livelli essenziali di assistenza), la maggior parte delle diagnosi, in tutta Italia, avvengono alla nascita. Il problema della diagnosi vale soprattutto per le famiglie udenti per le quali la sordità non è un evento atteso o prevedibile e che quindi può rimanere nascosto fino a quando non si manifestano i primi segnali di un ritardo linguistico (Caselli et al., 1994). Sempre per queste famiglie si è vista inoltre l’importanza del modo in cui viene comunicata la notizia di sordità del figlio dal personale medico, se il bambino è primogenito o meno, la personalità dei genitori, l’unità di coppia e il sostegno della famiglia allargata.
Un altro fattore che rende la sordità un fenomeno eterogeneo è l’età della protesizzazione: le protesi sono dei dispositivi di amplificazione che consentono di sfruttare, in misura minore o maggiore a seconda del grado di sordità, i cosiddetti residui acustici nell'ambito di un processo educativo. Le protesi più moderne sono di tipo digitale ovvero possono essere regolate in modo più preciso, possono ridurre i rumori di fondo, offrono una maggiore fedeltà nella riproduzione del suono e hanno un microfono direzionale che diminuisce i fastidi dovuti a suoni troppo intensi perché aumenta la selettività spaziale dell’ascolto. Oggi si tende a protesizzare sin dai primi mesi di vita (4-6 mesi) perché il periodo di maggiore plasticità cerebrale è da 0 a 3 anni, con un picco intorno all’anno e mezzo. I residui sono utilizzabili per avere accesso alla lingua parlata quando la perdita uditiva non supera gli 85 db.
Circa l'uso delle protesi nei casi di sordità profonda esistono posizioni teoriche contrastanti (Favia, Maragna, 1995). La protesizzazione costituisce una tappa importante nella vita di una persona sorda e le sue implicazioni vanno ben al di là degli aspetti medici. Infatti, diversi fattori, tra cui quelli di tipo psicologico, contribuiscono al successo e all'insuccesso della protesizzazione. Oltre alle protesi tradizionali c’è oggi anche la possibilità dell’impianto cocleare. “L’impianto cocleare è una protesi semi-impiantabile che sostituisce la funzione della coclea quando questa non è più sufficiente per una efficace amplificazione. Il processore svolge la funzione di codificare i suoni captati dall’ambiente esterno e di trasmetterli alla componente interna sotto forma di stimoli elettrici” (Marsella, Scorpecci, 2018). Gli stimoli elettrici vengono inviati al cervello da elettrodi che inviano il segnale direttamente al nervo acustico. A questo punto l’informazione viene processata a livello centrale dalle aree corticali dedicate.
L’impianto cocleare è però solo il punto di partenza, infatti l’intervento non dà la possibilità di sentire nello stesso modo in cui sentono gli udenti e implica necessariamente una terapia logopedica. Per una scelta consapevole fra le varie possibilità occorrerebbe che le famiglie fossero ben informate sulla base di informazioni scientifiche ed equilibrate e non sulla base di “quanto sentito in giro”, come ci mostra una ricerca di Mininni (1999) su un campione di 227 partecipanti sordi. In sintesi i due aspetti più ricorrenti in Italia emersi dalle interviste di Minnini sono: la scarsa informazione e le eccessive aspettative circa l’impianto cocleare.
Nel caso della sordità, l’handicap conseguente al deficit acustico è l’impossibilità di percepire e decodificare i suoni ambientali e quelli emessi dalla voce. Il noto psicologo russo Lev Vygotskij (1934) sottolinea il fatto che per un bambino sordo, la sordità rappresenta la normalità, e non una condizione di malattia: Egli avverte l’handicap solo indirettamente o secondariamente, come risultato delle sue esperienze sociali.
BIBLIOGRAFIA
Caselli M., Maragna S., Volterra V., Linguaggio e sordità. Gesti, segni e parole nello sviluppo e nell’educazione., Il Mulino, Bologna, 2006;
Fabbro F., Il cervello bilingue. Neurolinguistica e poliglossia, Casa Editrice Astrolabio, Roma, 1999;
Rinaldi P., Tomasuolo E., Resca A. (2018). La sordità infantile. Nuove prospettive d’intervento. Trento: Erikson;
Sempio O.L., Marchetti A., Lecciso F., Petrocchi S., Competenza sociale e affetti nel bambino sordo, Carocci, Roma, 2006;
Sorace A., Un cervello, due lingue: vantaggi linguistici e cognitivi del bilinguismo infantile,Università di Edimburgo _http://www.minoranze-linguistiche-scuola.it/wp-content/uploads/2010/03/Sorace.pdf.